La selva oscura di Faust

14 11 2011

 L’impietosa meditazione di Aleksandr Sokurov, vincitore del Leone d’oro a Venezia, sul destino umano 

Il Faust di Sokurov non è un film per signorine, non risparmia allo spettatore alcun ostacolo o ferita emotiva, semplicemente ci pone di fronte alla nostra intrinseca fragilità, alla caducità fisica ineluttabile e, allo stesso tempo, alla schiavitù del desiderio, questo sì inesauribile – al contrario del tempo assegnatoci – che ci divora e ci dilania fino all’ultimo respiro della nostra esistenza. La storia del Faust di Goethe (ma si potrebbe far riferimento anche a Marlowe per lo spirito dell’opera e per l’epilogo) diventa una vera e propria discesa agli inferi che prende ben presto l’aspetto e il tono di un inferno dantesco. Sokurov non solo ha capito tutto di Faust, ma si inventa in modo geniale anche il linguaggio adatto per esprimerlo.
Il film, che conclude la tetralogia del potere dedicata dal regista russo a Hitler, Lenin e alla fine dell’Impero del Sole di Hirohito, si apre su un paesaggio fiammingo degno di Bruegel nel quale regna una follia collettiva che non ha nulla da invidiare a Bosch.

 

Ispirandosi alla visione dell’aldilà tipica di Dante, il regista sa bene che l’inferno prima di materializzarsi in una condanna eterna è un luogo interiore, un senso di insoddisfazione, di “fame” continua che impedisce di ragionare e di vivere. Non a caso il film si apre con l’orribile visione di una dissezione anatomica umana nella quale Faust (interpretato da un ottimo Johannes Zeiler ) non sa neanche lui che cosa stia cercando. L’anima forse? Ma quella proprio non si trova. E allora seziona organi, estrae e taglia in una orrenda confusione di visceri sanguinolenti. Ma nessuna scienza può trovare ciò che egli cerca né lo può la medicina: tutti vogliono qualcosa perché “hanno fame”, fame di desideri che li perderanno, che li divoreranno fino ad ucciderli e solo allora tutto si acquieterà, contenti della morte al punto da provare riconoscenza per il proprio assassino. 
Meglio “non esser mai” piuttosto che “non esser più”: meglio sarebbe stato non essere mai nati, perché la nascita e il dolore sono uniti per sempre, fino all’ultimo secondo di vita. La meditazione su Faust porta dunque Sokurov ad attingere alle vette del pensiero umano, al senso finale della tragedia individuale e collettiva insita nella vita e nella morte. Il film è estremamente “parlato” e ricco come un copione teatrale e, allo stesso tempo, poiché siamo in un mondo di “già dannati” anche la parola è disturbata, spiata, sempre interrotta da qualcuno o qualcosa. Non c’è mai una vera comunicazione tra gli uomini perché tutti sono troppo presi dalla loro stessa sofferenza per ascoltare veramente gli altri. Tutti si spingono, si scontrano, si battono per nulla. L’ambiente è sempre troppo stretto, troppo caotico per poter ragionare e ogni cosa sfugge prima ancora di essere compresa. Le prospettive cambiano e si deformano tra realtà e pensiero, tra visione e desiderio, anche alternando i formati della pellicola proiettata tutta in un piccolo 1:37, che sembra il 4/3 televisivo. Proprio il contrario del grande formato HD a cui ci siamo abituati e di sicuro non è una scelta casuale. La dimensione ricercata dal regista è solo quella della coscienza e dell’aldilà, claustrofobica come un girone della Commedia.

 

Il Mefistofele raccontato da Sokurov non ha nulla di affascinante: è uno dei tanti inservienti di Lucifero, un lurido usuraio, uno che prende sempre in pegno qualcosa promettendo il soddisfacimento di qualche desiderio, ma poi ogni obiettivo raggiunto nasconde una terribile contropartita. Ciò che prende è ben altro del pegno richiesto, un prezzo altissimo per un nulla, ma la folle speranza degli uomini fa credere loro anche l’impossibile pur di vivere per un istante nell’illusione di poter padroneggiare il proprio destino.
Alla fine Mefistofele trascina Faust con sé nell’inferno, ormai materializzato, “in caldo e in gelo”, e sarà del tutto illusorio sperare di sfuggire al proprio demone seppellendolo sotto un mucchio di pietre. Faust nel suo ultimo atto di inutile superbia procederà da solo sempre più in alto, verso quello che crede sia l’estremo limite dell’uomo, ma ad attenderlo ci sarà solo il bianco ghiacciato di un gelido deserto. Traditore, dunque, come il conte Ugolino, della propria anima e di chi lo ha amato.

Rossana Cerretti


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