IL RITORNO DI ULISSE… IN ARCADIA

2 10 2011

La curiosa rielaborazione dell’eroe omerico nell’opera di Claudio Monteverdi recentemente presentata alla Scala

ulisse Il ritorno di Ulisse in patria è un grande affresco degli ultimi dieci libri dell’Odissea ideato da Giacomo Badoaro e Claudio Monteverdi nel 1640 per il pubblico di Venezia, opera di grande successo all’epoca come dimostra la ripresa dell’anno successivo nella stessa città, fatto eccezionale, visto che allora le messe in scena duravano in genere solo una stagionePer noi oggi, invece, non altrettanto facile da apprezzare, anche per la presenza di molti personaggi e soprattutto di lunghi monologhi lirici. Se ne rese conto forse Monteverdi stesso, vista la sua continua ricerca di colpi di scena e situazioni capaci di movimentarel’insieme. Una favola antica riveduta e corretta a beneficio di un pubblico aristocratico, raffinato e sentimentale, attento soprattutto alla presenza dell’elemento amoroso.
Per chi conosce l’originale omerico alcuni aspetti appaiono immediatamente evidenti: è stato valorizzato soprattutto l’aspetto elegiaco e bucolico, “arcadico”, insomma, dove il personaggio appare spesso solo con i suoi pensieri di nostalgia, di rimpianto e di preoccupazione per il presente, pervaso dai suoi dubbi e dai lamenti. Il canto e la musica piuttosto che far avanzare l’azione, in realtà, danno voce soprattutto alle reazioni psicologiche dei protagonisti e manifestano apertamente i loro pensieri segreti. In questo senso è Penelope la figura chiave dell’opera, contrapposta volutamente alla serva Melanto la quale intrattiene con Eurimaco una relazione amorosa felice e appassionata e incita Penelope a lasciarsi andare. Ma la sposa di Ulisse risponde disprezzando l’amore sentimento infido che porta il dolore e la disillusione.
Sembra così che Monteverdi – Badoaro pensino alla risolutezza di Penelope come ad un elemento negativo non dovuto al sentimento di fedeltà, ma piuttosto alla sua paura di amare, perché colei che si sente abbandonata non sa più lasciarsi andare al sentimento, nonostante i numerosi corteggiatori. Questo ci porta effettivamente ad uno degli elementi centrali dell’opera dove tutto ciò che è legato alla bellezza femminile e alla esaltazione dei sensi viene posto in grande evidenza, mentre le parti propriamente epiche ed eroiche vengono decisamente sminuite e rese, per così dire, “inoffensive” agli occhi dello spettatore. L’elemento tragico, quindi, viene molto limitato, per lasciar spazio a sentimenti più leggeri e cortigiani. I Proci, ad esempio, da un centinaio diventano tre, e la loro uccisione da parte di Ulisse è poco più che virtuale, elemento questo enfatizzato ancor di più, nello spettacolo della Scala dalla regia surreale e astratta di Robert Wilson. Inoltre, se l’uccisione dei Proci è l’elemento risolutivo dell’originale omerico, descritto anche negli aspetti più violenti e sanguinari, nel Ritorno di Ulisse il motivo dominante è l’ostinazione di Penelope che si rifiuta di riconoscere il marito, nonostante le molte prove, portate anche dalla nutrice Ericlea (una brava Marianna Pizzolato sacrificata in una parte veramente minima). Telemaco lungi dall’aver conseguito nel suo viaggio a Sparta uno spirito eroico, esalta invece nel dialogo con la madre la bellezza di Elena, anche qui volutamente contrapposta alle virtù di fedeltà e pudicizia. L’opera è costruita, quindi, in modo problematico soprattutto sui pro e i contro di amare o non amare – riflesso delle dotte discussioni della veneziana Accademia degli Incogniti – anche se alla fine, c’è un omaggio proprio alla “verginità” pudica di Penelope: come prova risolutiva della sua identità Ulisse, infatti, non ci parla dell’ulivo entro il quale è costruito il suo letto nuziale, ma di una coperta tessuta dalla stessa Penelope dove viene raffigurata Artemide (irriducibile vergine) con le sue ninfe a caccia. Elemento alquanto curioso per un letto matrimoniale, ma, appunto, l’opera è tutta giocata sul contrasto tra passione e fedeltà coniugale tra la solitudine che ne deriva e l’edonismo delle altre donne. Monteverdi e Badoaro creano quindi un dramma per musica che intende esaltare entrambe le ragioni quelle della giovinezza, del cuore e, soprattutto, seguendo i poeti latini, dell’attrazione fisica e quella, invece, dell’etica e del giuramento da mantenere. La musica segue lo struggimento di Penelope, le sue incertezze, la sua triste vita eternamente in lutto, così come indugia con Ulisse sulla spiaggia di Itaca mentre, risvegliatosi dopo il viaggio con i Feaci, si lamenta disperato non riconoscendo la sua patria. L’impostazione musicale sembra voler favorire soprattutto l’ascolto e l’esaltazione della parola poetica con ridondanze e rallentamenti. Monteverdi si sofferma sulle parole-chiave, e talvolta perfino sulle sillabe, sfruttando appieno il potenziale sonoro dell’unione musica-parola.
ulisse-8-492x329Certo, per un’opera del genere ci vuole un pubblico avvezzo a questo tipo di melodramma, capace di apprezzare la meravigliosa fusione degli elementi in questa sorta di “recitazione cantata”, un pubblico preparato e attento anche alle singolari varianti della trama rispetto al modello omerico. Altro elemento interessante sono i concili degli dei che, invece, vengono inseritia piene mani all’interno dell’opera e che ricordano quelle trattative tra statisti, ministri e re dell’epoca dal fare vagamente annoiato, un po’ sciattamente alle prese con i destini del mondo. Anche questo fa parte del tormentone barocco: l’idea del fato che viene deciso sempre altrove tra i potenti in un’altra dimensione, in un altro mondo contro il quale si può fare ben poco, come dimostrano le quattro figure allegoriche del prologo che si spartiscono insieme il potere del mondo: Fragilità umana, Fortuna, Amore e Tempo.

La regia di Robert Wilson di certo non ha aiutato il movimento scenico, seguendo se è possibile ancor di più l’aspetto meditativo e surreale dell’opera, creando delle atmosfere sospese e nitide con scene dalla spazialità geometrica e luci fredde. Viene esaltata la fissità dei personaggi in pose estremamente espressive, ma statuarie, in contrasto con i ricercati costumi, frutto della commistione tra abbigliamento aristocratico seicentesco e reinterpretazione baroccadell’antico. Di sicuro una regia così concentra ancora più di quanto già non faccia la partitura tutto l’interesse sulla musica e sul canto e mortifica veramente troppo l’azione scenica creando, nonostante le indubbie suggestioni formali, una specie di spettacolo-concerto.
Il direttore Rinaldo Alessandrini e l’orchestra, coadiuvata dal gruppo Concerto italiano, sono stati davvero magistrali nel rendere compiutamente le atmosfere barocche di Monteverdi, nel seguire le aperture liriche del testo poetico e nell’eseguire i crescendo dei concitati drammatici. I cantanti nella recita del 28 settembre, invece, sono risultati piuttosto anonimi, forse anche perché quest’opera non lascia grande spazio a nessuno di essi, ognuno ha la sua parte, ma nessuno emerge in modo particolare. L’unica che in genere dovrebbe distinguersi di più è appunto Penelope, interpretata da Sara Mingardo, ma la sua esecuzione è apparsa piuttosto incolore. Più riuscito il personaggio di Iro interpretato da Gianpaolo Fagotto, originale creazione monteverdiana del primo personaggio comico dell’opera lirica.

Rossana Cerretti


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